NOTIZIE dalle Missioni

Il mio impegno sociale

Padre cirurgião salva vidas em Moçambique há 40 anos | Moçambique | DW | 05.11.2015 Padre Aldo

P. Aldo Marchesini: dehoniano, sacerdote, cirurgião e missionário.  (Dehoniano)

https://www.dehoniani.org/pt/meu-compromisso-social/

Intervista. L’arcivescovo Dalla Zuanna: fondi dal Golfo Arabo per islamizzare l’Africa

Claudio Dalla Zuanna, arcivescovo di Beira in Mozambico (Dehoniano)

Claudio Dalla Zuanna, arcivescovo di Beira in Mozambico

 

 

 

Dr. Aldo Marchesini  Riconoscimento internazionale di Aldo Marchesini, il chirurgo sacerdote che si impegna a migliorare la salute delle donne

AVVENIRE   INTERVISTA AL MISSIONARIO DEHONIANO

P. ALDO MARCHESINI

Un missionario dehoniano, il 12 giugno 2014 a New York, è stato insignito dall’Onu con il prestigioso riconoscimento del “World Population Award”. Padre Aldo Marchesini, 72 anni, bolognese, impegnato negli ospedali del Mozambico dal 1970, ha ricevuto l’importante premio per il suo impegno in campo sanitario in uno dei Paesi più poveri del mondo. Le sue parole nel servizio di Luca Tentori.
Una vita missionaria a tutto campo, quella di padre Aldo Marchesini, che in 40 di apostolato in Africa ha affrontato anche un rapimento e diverse carcerazioni. Ma il suo contributo maggiore, sulle vie del Vangelo, è stato quello offerto alle donne povere di quelle terre,  segnate spesso da problemi legati a parti difficili. E per questo l’Onu gli ha riconosciuto il “World Population Award”, istituito nel 1981, per premiare persone e organizzazioni che si sono distinti nel migliorare la salute della popolazione mondiale:
“Mi sono dedicato a trattare i malati, specialmente quelli di tipo chirurgico, e poi a insegnare  ai giovani medici e infermieri. L’attività di  insegnamento si fa con la vita, con i commenti, le domande. Ultimamente, la mia vita è stata dedicata alle donne che hanno un problema alla fistola vescico-vaginale dovuto al parto prolungato. Queste donne sono rifiutate dalla società perché perdono sempre  urina. Da sole non guariscono, occorre che  siano operate. Finalmente, in questi ultimi anni c’è stata una presa  di  coscienza da parte delle autorità sanitarie mondiali e hanno scelto questa infermità come prioritaria nel terzo millennio. Hanno sollecitato i governi a fare qualcosa per migliorare. Vedere queste donne, rigettate da tutti, che  fanno l’operazione e guariscono è una nuova vita che comincia. Questa soddisfazione è  impagabile”.
Nel 2003,  padre Aldo Marchesini scopre di essere affetto dall’Hiv, contratto nelle operazioni di alcune donne partorienti sieropositive. Non volle tornare in Italia per curarsi, perché riteneva ingiusto che le popolazioni africane non potessero accedere ai farmaci salvavita per quella terribile malattia. Si è battuto per portare quei medicinali nei suoi  ospedali e cercare di lottare e guarire davanti alla sua gente. Considerò quell’esperienza una grazia per poter capire dal di dentro cosa si prova nella malattia. “Gesù mi ha condotto alle periferie della terra – ha detto durante la cerimonia di consegna del riconoscimento all’Onu lo scorso 12 giugno – Vivere con i più poveri è un’esperienza  straordinaria, perché poco a poco si comprende, come diceva Gesù, che  i sapienti e gli intelligenti non riescono a capire i segreti del mondo, aperti invece ai piccoli ed ai poveri”.
Ma ora cosa farà al suo ritorno,  negli ospedali in terra di missione?
“In Mozambico, mi attende molto lavoro. Là di lavoro  ce ne è sempre, ce ne è un’infinità. Riprendo la mia vita di tutti i giorni”.
Una vita bella perché, come ha detto a conclusione della cerimonia al Palazzo di Vetro di New York: “Penso che poter lavorare con i poveri sia una delle fortune più grandi che si possano avere”.
Padre ALDO MARCHESINI
Medico e Missionario Dehoniano a Quelimane (Mozambico)

http://webtv.un.org/meetings-events/other-meetingsevents/watch/2014-united-nations-population-award-ceremony/3621264884001

MOZ – P. Aldo Marchesini insignito del “World Population Award” delle Nazioni Unite
Padre Aldo è stato insignito del “World Population Award” delle Nazioni Unite. Premio istituito dalle Nazioni Unite nel 1981, per premiare individui e organizzazioni che si siano distinti nel migliorare la salute della popolazione mondiale. Il premio sarà consegnato a New York il 12 giugno p.v.
Sabato 22-3-2014 Padre Aldo in una email inviata a sua sorella annunciava:
… Ieri l’altro mi hanno telefonato dalle Nazioni Unite di New York per informarmi che dall’UNFPA mi è stato attribuito un premio per il  mio impegno a favore dei malati, delle donne con fistole, dei poveri ecc. UNFPA è il fondo delle nazioni Unite per lo sviluppo dei popoli. Dovrò recarmi a New York per ritirarlo, il giorno 12 giugno (un  giovedì) …
Potete trovare più informazione  sul P. Aldo Marchesini  nel suo sito www.padrealdo.net
Cosa è il World Population Award
Il World Population Award è stato istituito dalle Nazioni Unite nel 1981, per premiare individui e organizzazioni che si siano distinti nel migliorare la salute della popolazione  mondiale.
Quest’anno insieme a padre Aldo, l’Onu  premia anche il Johns  Hopkins  Programme  for International Education in Gynecology  and  Obstetrics, un ente non a scopo di lucro fondato dalla Johns Hopkins University nel 1973 per combattere la mortalità nel parto. I premi saranno consegnati a New York il 12 giugno.
Consulta l’elenco di tutti  i  premiati fin dalla creazione dell’Award
Guarda la notizia sui giornali:Un sacerdote bolognese premiato dall'Onu  www.ilmessaggero.it   www.repubblica.it   www.lavocedinewyork.com     Nazioni unite:   www.unfpa.org  e anche  www.un.org

21/07/2006 Mozambico / La toccante esperienza di padre MarchesiniIo, missionario con l’Aidsdi

Anna Pozzi  Medico missionario, padre Aldo si è infettato curando altri malati. E ha fatto della sua malattia un’occasione di testimonianza cristiana e di riscatto per altri sieropositivi

 

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Padre Aldo Marchesini, 65 anni, missionario dehoniano, la sua malattia non l’ha mai nascosta. Anzi, della fatica di accettarla, di conviverci e di farne un segno di speranza per molti africani ne ha fatta una ragione di vita.
Vita contro la morte. Perché è ancora questo che significa l’Aids in Africa per milioni di persone che ne sono infette. Compreso padre Aldo. Che, medico missionario a Quelimane, in Mozambico, dal 1974, si è ammalato curando altri malati.
Da anni, porta la sua testimonianza coraggiosa di lotta per la sua vita e per quella degli altri, ovunque glielo chiedano. Anche al convegno che il Pime, insieme all’ufficio missionario della diocesi di Milano, a Caritas ambrosiana e all’associazione Salute Africa, hanno organizzato lo scorso maggio nel capoluogo lombardo. Una testimonianza che ha lasciato un segno profondo.

Padre Aldo, quando ha scoperto di essere sieropositivo?
La mia attività di medico mi metteva spesso in contatto con malati sieropositivi, che progressivamente si aggravavano fino a morire. Era veramente uno strazio. In ospedale io ero il più anziano e i colleghi spesso chiedevano che fossi io a dare la notizia al paziente o alla sua famiglia. Far conoscere agli interessati questa verità era un compito molto ingrato. Era il tempo in cui Aids era l’equivalente di morte inevitabile ed essere sieropositivo era un marchio che cambiava totalmente la vita sociale delle persone.
A un certo punto, cominciai a notare che non riuscivo più a sopportare il caldo torrido, avevo diarrea e una febbre strana. Cominciai a tossire. Pensavo che fosse la stanchezza. Rientrato in Italia  feci degli esami. Quando andai a ritirare i risultati, mi dissero che avevo nel sangue gli anticorpi di molti virus, ma riguardo all’Hiv, dovevano ripetere il test. Il giorno seguente, trovai il mio collega con un foglio in mano. Invece di darmi la risposta a voce, mi invitò a leggerla insieme. Diceva: «La ricerca degli anticorpi è risultata positiva per l’Hiv 1 p24 e gp41».

Che cosa ha provato in quel momento? Qual è stata la sua reazione?
Siamo rimasti in silenzio. Ricordo che non ho provato nessuna emozione particolare e tanto meno sconforto. Ancora adesso non so rendermene conto. Molte volte avevo comunicato la stessa notizia ai miei pazienti e a quelli dei miei colleghi e sapevo come fosse ingrata per me e dolorosa per l’interessato. A volte m’era capitato d’immaginare d’essere io nelle vesti del paziente. Avevo sempre scacciato il pensiero con una certa angoscia, tranquillizzandomi che non ero malato e che quelle erano fantasie mentali. Rimasi a guardare il foglio per un attimo, in silenzio. Che fossi io il paziente adesso era la verità. Tuttavia l’angoscia che accompagnava le mie fantasie mentali non c’era. Nel passaggio dalla fantasia alla realtà, l’angoscia era svanita. Al suo posto stava nascendo un sentimento nuovo, un’impressione radicale d’essere diventato differente. Avevo la sensazione che il vagone su cui mi trovavo avesse imboccato uno scambio nascosto e che ora viaggiassi su un binario parallelo a quello su cui continuava a correre il treno della vita.

A quel punto, che cosa ha fatto?
Mi sono sottoposto a tutte le indagini che hanno portato alla conclusione che la malattia era già arrivata al punto in cui era opportuno cominciare la terapia con gli antiretrovirali. Per me non c’erano difficoltà. Come cittadino italiano avevo accesso gratuito all’assistenza medica e medicamentosa. Era necessario trattenermi un mese per controllare eventuali effetti secondari della terapia. E intanto pensavo a come e quando poter ritornare a Quelimane.

Non ha mai pensato di fermarsi in Italia per potersi curare adeguatamente?
Al contrario. Mi chiedevo come tornare a vivere in mezzo ai miei colleghi e ai miei pazienti sieropositivi, unico malato di Aids con diritto alla terapia e alla vita. Era necessario fare tutto il possibile perché anche gli altri potessero avere la mia stessa speranza di vivere. Avevo sentito che pochi mesi prima la Comunità di Sant’Egidio aveva iniziato un day hospital nella capitale Maputo, dove aveva avviato un programma di terapia gratuita per i malati di Aids. Mi recai a Roma per parlare con i responsabili del progetto e verificare se fosse possibile aprire una succursale a Quelimane. Mi diedero buone speranze e dunque, appena tornato in Mozambico, cominciai i contatti necessari con le autorità sanitarie locali.

Quali furono le risposte?
Molto positive. E, infatti, sei mesi dopo il mio rientro, il primo day hospital di Quelimane aprì le porte e io cessai di essere l’unico dei miei concittadini malati con diritto alla vita. In seguito, grandi aiuti internazionali cominciarono ad essere messi a disposizione di vari Paesi africani e iniziò a diffondersi la terapia antiretrovirale. Intanto, in India e in Brasile avevano cominciato a produrre questi farmaci in formula generica. Sul mercato c’erano ormai medicine a un prezzo accessibile.

L’Aids però non è una malattia come le altre. Sul malato persiste ancora oggi un marchio di vergogna e di maledizione…
E infatti restava un’altra grande lotta da fare. Quella contro lo stigma. La paura dell’ostracismo bloccava ancora la maggioranza delle persone dall’affrontare il test e dal dichiararsi apertamente sieropositive. Per questo pensai che la mia vicenda personale di sieropositivo in terapia antiretrovirale potesse essere utile per dare coraggio a molte persone, o perlomeno potesse servire per rompere la spirale di silenzio e di fuga dalla realtà. A Quelimane tutti mi conoscono e c’era una grande curiosità di sapere la causa della misteriosa malattia che mi aveva trattenuto in Italia per quasi sei mesi. Decisi così di fare due riunioni: una con tutti i lavoratori dell’ospedale  e una coi cristiani della mia parrocchia. La partecipazione fu numerosissima. Spiegai che mi ero scoperto malato di Aids e che mi ero infettato operando o assistendo le donne nel parto e che stavo facendo la terapia ed essa cominciava a farmi sentire meglio e mi consentiva di lavorare. Approfittai per insegnare alcune cose fondamentali relative al virus Hiv e alla malattia, come essa si  trasmette, come si presenta, quali sono i danni che provoca nell’organismo e per quale motivo, se non trattata, porta il paziente a morire in un tempo relativamente breve. Annunciai che la terapia sarebbe stata disponibile gratuitamente e che non bisognava aver paura di fare il test, perché quello era l’unico mezzo per sapere in tempo la verità su se stessi e poter cominciare il trattamento.

Quale è stata la reazione della gente?
Queste due conferenze hanno mosso le acque. Dopo sono stati numerosi quelli che si sono sottoposti al test. Molti si sono scoperti sieropositivi e hanno cominciato la terapia. Ora a Quelimane le persone in trattamento sono quasi un migliaio e molti di loro, già sfiniti dalla malattia, si sono ripresi, hanno recuperato le forze, il peso, la speranza e, quello che più conta, la voglia di vivere. Loro stessi, con la loro silenziosa ma visibile  testimonianza, fanno la migliore propaganda per vincere la vergogna e l’isolamento.

La situazione in Mozambico, tuttavia, resta drammatica e la maggior parte delle persone malate di Aids non ha accesso al trattamento antiretrovirale…
In questo Paese i sieropositivi sono ufficialmente il 16 per cento della popolazione. Quindi su 18 milioni di abitanti, sono circa 2 milioni e 800 mila. Verosimilmente circa un quarto avrebbe già bisogno dei farmaci antiretrovirali, ovvero 720 mila sieropositivi. All’inizio di quest’anno, in occasione di un simposio sulla situazione dell’Aids nel Paese, il Primo Ministro ha annunciato che l’obiettivo del ministero della Salute è quello di mettere 40 mila malati in trattamento prima della fine del 2006. Ciò significa che 680 mila resteranno in balìa del virus e un buon numero di loro finirà per morire di Aids.

Visto che la cura resta ancora oggi un privilegio per pochi, che cosa fare per arginare i contagi?
Nonostante tutto l’impegno per l’educazione sessuale e la prevenzione, la percentuale degli infettati continua ad aumentare. Il fatto è che la via principale di trasmissione è quella sessuale e una diminuzione dei casi può avvenire solo se si riuscirà a promuovere un cambiamento dei comportamenti sessuali, specialmente nei giovani. In altre parole, è necessaria una conversione del cuore. Per ottenerla non bastano gli sforzi umani, la pubblicità e i cartelloni per le strade. Io sono un  missionario e nei miei lunghi anni di sacerdozio posso ben testimoniare che la conversione avviene solo con la grazia di Dio, come sta scritto in Ezechiele: «Io vi darò un cuore nuovo». Il cuore nuovo è solo Dio che ce lo dà. Bisogna che la Chiesa e i credenti di tutte le religioni si impegnino in prima persona per ottenere con la preghiera, la carità e l’educazione questo dono dal buon Dio.

Lei è medico, ma come lei stesso sottolinea, anche sacerdote e missionario. Come si è trovato a vivere questa esperienza della malattia? Come ne è stato interpellato dal punto di vista della vita spirituale e di fede?
Quando ricevetti la notizia di essere sieropositivo comincia una profonda riflessione sulla morte. Prima di allora la morte era una realtà che si riferiva agli altri, ora invece l’interessato diretto ero io. Il suo pensiero mi accompagnava come un dato di fatto che faceva parte della mia identità. Non importava quanto tempo mi separasse dal suo abbraccio, la verità era che il mio vagone viaggiava verso il suo capolinea. Una prima conseguenza fu quella di cogliere il senso di profonda umiliazione che il morire porta con sé. Si tratta di abbandonare ogni privilegio o eccezione. I miei malati, che mi morivano, non erano più «loro» a morire, ma in un certo senso ero io. Era come se mi fosse concesso di farne la prova in prima persona. Morire fa sperimentare di non avere più nessun potere e di non valere più nulla. Tutto ciò lo sentivo come profondamente umiliante.
Un’umiliazione che dovevo accettare. Di fatto l’accettai, e a partire da lì mi si aprirono le porte di una libertà di spirito che non avevo mai conosciuto prima d’allora.
Una seconda conseguenza fu scoprire che avevo vissuto una vita enormemente lunga: mi accorgevo che in pratica ero vivo come se lo fossi da sempre. Ciò mi riempì di gioia e mi diede un senso di sazietà, mi faceva sentire «pieno di giorni». La sensazione di aver terminato la traversata e di essere ormai in porto, mi dava tranquillità, ma ben presto mi accorsi che mi ostacolava ad intraprendere nuove iniziative e nuovi impegni. Dava origine al pericolo di non lasciarmi coinvolgere più da nulla e di essere vinto dalla tentazione di aspettare dormendo il ritorno dello sposo.

Eppure lei ha tutt’altro che un’aria rassegnata…
E infatti, mi trovavo in queste riflessioni, quando mi imbattei, nel mio ministero sacerdotale, in una frase della lettera di san Paolo ai Romani: «In effetti, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso. Se viviamo è per il Signore che viviamo; e se moriamo, è per il Signore che moriamo. […] Infatti fu per questo che Cristo morì e tornò alla vita: per essere il Signore tanto dei morti come dei vivi».
La dualità di morte e di vita cessava, in fondo, di esistere. La dualità infatti esiste finché io vivo per me stesso o muoio per me stesso, ma se vivo per il Signore e se muoio per il Signore, la dualità cessa: sia che viva sia che muoia è al Signore che appartengo. Appartenere al Signore, questa diventa l’unica vera realtà.
Da essa nasce quella pace, che permette di essere felici di vivere così come di essere felici di morire. Felice di vivere perché vivo per il Signore, felice di morire perché muoio per il Signore. Penso che non ci sia libertà interiore più grande, libertà di tale grandezza che, per potercela conquistare, è stato necessario che Gesù morisse e risuscitasse.

 

 

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Mozambico

UN VESCOVO TRA I “GARIMPEIROS”
CERCATORI DI ORO

L’ignoto esiste.
Il mondo è immenso e anche nella stessa diocesi esistono persone e luoghi inaccesibili e inesplorati.
Nel mio vagabondare come vescovo del Nord della diocesi sono arrivato alla confluenza del fiume Rovuma che fa da confine naturale tra Mozambico e Tanzania e tra Mozambico e il lago Niassa (o come dicono le mappe: lago di Malawi!).
Qui mi sono attendato. Per modo di dire: qui sono caduto!
Strade inesistenti, fiumi intransitabili: terra dei garimpeiros!
Vengono dalla Tanzania e dal Malawi. Parlano lingue nuove e non conosciute. Sono giovani (maschi!) in cerca di oro e di una ricchezza che si rivela un trabocchetto alle loro speranze.
Siamo entrati dal confine tra Tanzania e Mozambico: ci siamo inoltrati pensando il meglio: “Nessun sacerdote o vescovo sono mai entrati qui!’’.
2000 persone, sconosciute al mondo e al Mozambico, disperse in una quindicina di paesetti nella profonda terra del Nord del Mozambico.
Mi sono domandato: cosa ci sto a fare qui? Io sono il vescovo di questa gente! Sono i miei figli ignorati per tre anni! Sono miei ! E io non lo sapevo.
Matjeje, Lutumboshi, Lupilichi, Nakagurue, Tulo… località sconosciute nella mappa del Mozambico: sono le montagne del Nord ricche di oro, oro autentico, l’ho visto nelle loro mani, dopo un giorno di presenza tra loro.
Sono partiti questa mattina quando il sole era ancora da nascere, si sono arrampicati sui sentieri scoscesi della montagna per raggiungere il luogo dove faranno brillare la loro dinamite per spaccare la montagna, raccogliere i sassi auriferi, caricarli sulle spalle, scendere nella valle, collocarli dentro il frantoio per macinare la pietra, aspettare … e raccogliere una piccolissima manciata di polvere gialla: l’oro.
Ci vorrà un grammo per ricevere 30 euro!
L’associazione governativa controlla tutto il mercato! Se produci, il guadagno è tuo! Ma se non incontri la roccia giusta… la fatica e la speranza si frantumano!
Vita da garimpeiros!
Visito le loro “case” ( tuguri degradati) e cerco di capire il perché di questa fatica immane!
Li trovo stravolti dall’alcool (accostati alle pareti di fango, semidistrutti dalla fatica, smorti, e accanto a loro giovani prostitute in cerca di lavoro. Il resto dell’umanità!
Una vita stroncata dalla speranza e dal sogno.
Sono quasi tutti Tanzaniani! Sono esuli, senza documenti validi, sfruttati dai signori dell’oro! I signori sono governativi che chiudono gli occhi sulla loro provenienza ma li sfruttano come mano d’opera!
La piccola comunità cristiana sa. Vede e vuole fare qualcosa per loro ma si trova impotente. Qui bisogna vestirsi dei vestiti da lavoro e andare a visitare uno per uno, indipendentemente dalla religione professata, e far loro capire l’assurdità della vita.
Sono i nuovi sfruttati! In nome dell’oro nascono i nuovi schiavi, i nuovi adoratori della illusione di una ricchezza facile e a portata di mano.
Li ho visti lungo i sentieri della foresta (siamo sulle montagne!): gruppetti di cinque o sette, con la torcia in fronte (per entrare nelle gallerie) in fila indiana, in viaggio da 4 giorni, sbandati e con gli occhi fuori dall’orbita!
Tornate a casa! No. Vogliono arricchirsi in fretta! Non ce la faranno mai!
Oggi riparto con la mia jeep miracolosa (non so ancora come sono arrivato fin qui!): dietro ho quattro di questi ragazzi con le gambe spezzate dalla roccia caduta su di loro dopo che la dinamite ha fatto brillare la miccia. Li porto al confine con la Tanzania. Li affido alla guardia di confine e chiedo di provvedere: non ho il permesso di valicare la frontiera. Piangono, dissanguati e gli occhi scavati.
Cari amici, questo stralcio di vita ci interroga e ci fa divenire umili e ci trova impotenti: l’oro ancora oggi sfrutta e uccide. Nei dieci giorni passati tra i garimpeiros non sono riuscito a dormire: li vedevo sempre davanti e, se mi assopivo, li sognavo. È troppo forte per la mia sensibilità umana.
Oggi sono tornato a casa.
Ho chiesto un incontro con il Governatore di Lichinga! Mi accoglie subito, perché gli ho detto che ho una bomba in mano! Mi ascolta e quasi piange: nessuno mi ha informato! Ora lo sai! Lo sai cosa succede lassù!
Il Governo li, non esiste! Scuola, Centro di salute, Strade di comunicazione: non esistono!
Il vescovo dei garimpeiros! Bel primato! Quante lacrime e sofferenza mi rimangono nel cuore. Oggi sono cambiato: vivo tra i garimpeiros e voglio spaccare il cerchio di omertà con cui il governo si fa complice della morte di centinaia di giovani vite, buttate allo sbaraglio dell’illusione.
Con affetto
+Elio, vescovo dei garimpeiros, cercatori d’oro

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